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“Il mio nome è il plurale di merlo, Merli” e nel medesimo tempo indicava i pini sopra di noi. Rimasi meravigliata da tanta capacità di giocare con le parole e di connetterle con l’ambiente circostante. Non mi era mai capitato di condividere gli stessi tratti somatici e di parlare – con una donna più grande – dell’innominabile peccato sessuale, dell’importanza del divorzio, del sano egoismo. Entrambe avevamo molto simili le labbra carnose, il naso a patata, gli occhi a mandorla. Ma – era evidente – i suoi organi di senso avevano assaggiato, odorato e visto molto di più. Le rughe nel suo volto lo testimoniavano. Entrambe eravamo emotivamente coinvolte. La incoraggio a non piangere e le chiedo perché sprecare lacrime in un giorno così soleggiato. Tita Merli mi prende la mano “Mi hai riportato indietro, a quando all’età di ventisei anni sono arrivata a Roma. Ero mal vista dalla comunità filippina perché piantai in asso la chiesa, mi sposai con un bianco e divenni madre molto tardi”.